Il 21 Febbraio 2020 si registrava in Italia il primo caso di COVID-19, meglio noto come corona virus. Da quel momento in poi le nostre vite, le nostre abitudini e le nostre priorità sono state stravolte. I più fortunati possono continuare a proseguire le loro esistenze semplicemente rimanendo a casa, certo, con delle limitazioni, ma con la possibilità di poter ancora salvaguardare il bene più prezioso di tutti: la propria salute e quella dei propri familiari; per gli altri invece, ahimè parlano i numeri: le lacrime versate per i propri cari, la paura dell'esito positivo del tampone, i bollettini quotidiani dei telegiornali, le file di bare all’ interno delle Chiese, i medici e gli infermieri stremati, gli ospedali al collasso, l’economia devastata, la psicosi collettiva.
Si farà la conta, ma non ora, oggi nel tempo sospeso in cui siamo a chiamati a vivere, si può solo cercare di fare del proprio meglio per affrontare ogni giornata nel migliore dei modi possibili, stando a casa naturalmente, e facendo sì che questo tempo diventi una risorsa e non una condanna.
Sebbene il momento storico in corso abbia il sapore della sceneggiatura di un film catastrofico, possiamo comunque ritenerci fortunati: sopravvivere al tempo della pandemia nell’ era contemporanea, significa poterlo fare con un lusso di risorse in altre epoche impensabili, e a cui forse oggi si da poco valore. Non solo la medicina e l’evoluzione della ricerca in campo scientifico permetteranno, seppur con molte difficoltà e un numero ancora troppo alto di decessi, di guarire quanti più pazienti possibile, ma chi nel frattempo potrà tutelarsi restando a casa per evitare il contagio, ha una quantità vastissima di strumenti con cui occupare il proprio tempo. Cento anni fa non era certo così, la quarantena era davvero un isolamento completo e totalizzante, e chi ad esempio faceva l’artista, occupava quel tempo nell’ unica forma conosciuta, continuando a realizzare opere straordinarie, che riflettevano gli stati d’animo angosciati di quei giorni.
E allora, alla luce degli accadimenti dei nostri giorni, mi sono chiesta:
“ma come avranno vissuto i nostri avi durante l’Influenza Spagnola, quella che fu la più grande pandemia della storia dell’umanità?
e soprattutto quali furono gli Artisti colpiti da questa catastrofe?
Come reagirono e in che modo l’Arte fu condizionata da una così grave pandemia?”
E così…inizia la mia ricerca, su un tema che, forse in altre circostanze, non avrei mai pensato di trattare.
Tra il 1918 e il 1920 il mondo fu colpito da una pandemia influenzale nota come “Influenza Spagnola”, che uccise milioni di persone, più di quante non ne furono state uccise con la Prima Guerra Mondiale. Solitamente le epidemie influenzali vanno ad attaccare con maggiore aggressività soggetti deboli come anziani, immunodepressi o pazienti affetti da patologie pregresse, ma nel caso della spagnola, il virus uccise prevalentemente giovani adulti. L’alto grado di mortalità fu causato principalmente da polmonite e da consolidamento parenchimale polmonare, ossia da ispessimento e gonfiore del tessuto molle del polmone che si riempie di liquido (solitamente conseguenza di edema polmonare) anziché d’aria, e complicanze varie come enormi emorragie delle mucose. Un evento così drastico, in concomitanza con la Prima Guerra Mondiale, che ne favorì la diffusione per l’alto numero di soldati che si ammassavano negli spostamenti militari e negli alloggi, aggravati da condizioni di stress fisico, malnutrizione, e scarsa igiene, inoltre l’incremento dei viaggi che stava andando a svilupparsi nelle prime decadi del Novecento, contribuì al propagarsi del virus in tutte le aree del globo. Un secolo fa, così come oggi, si adottarono misure preventive per contenere i contagi, come la chiusura di scuole e negozi, che per sopperire alle richieste potevano servire i clienti all’ esterno. Si arrivò al punto di non riuscire più a visitare gli ammalati perché gli stessi medici e infermieri erano stati a loro volta contagiati, e per ovviare l'elevato numero di mortalità, impossibile da gestire, in molti luoghi furono scavate fosse comuni, in cui venivano rigettati i corpi senza bara. Furono disinfettati autobus, tram e strade e fu ordinato ai cittadini di indossare mascherine protettive.
E così poco alla volta, nazione dopo nazione, questo scenario andava delineandosi ovunque, la popolazione a fatica andava avanti come poteva, cercava di sopravvivere, e gli artisti colpiti da questa immane catastrofe lasciavano il segno di quel tormento sulle proprie tele.
In quegli anni l’Espressionismo è la tendenza dominante dell’arte Europea, che si manifestò principalmente in Francia (con le opere dei Fauves) e in Germania (con il gruppo Die Brücke). Il pittore norvegese Edvard Munch (Løten, 12 Dicembre 1863 – Oslo, 23 Gennaio 1944) fu il primo a presentare un immagine inedita e sconvolgente della pittura. Nel 1892 ci fu la sua prima esposizione a Berlino con un numero di ben 55 opere, di cui fu chiesta la rimozione, ma gli artisti tedeschi supportarono pienamente le scelte espressive dell’artista, con la conseguente nascita della Secessione Berlinese, che fece della Germania la sua seconda patria. Munch ha un legame particolare con la rappresentazione della malattia, che diventa la ragion del suo essere pittore. Nel 1877 aveva visto morire la sorella Sophie di tubercolosi a 15 anni e aveva perso la madre a soli cinque anni. Morte e malattia furono i ricordi della sua infanzia che lo segnarono profondamente. Rappresentò la sorella malata nelle diverse fasi della sua agonia, incarnando la sua sofferenza e il suo dolore (Edvard Munch “Fanciulla malata” Olio su tela, 120×118.5 cm. serie di 6 versioni pittoriche, Ubicazioni varie). Nei suoi diari scrisse
“Io che sono venuto malato al mondo, in un ambiente malato, dove la gioventù era una camera di malato e la vita una finestra radiosa illuminata dal sole”.
E forse, come in un destino già scritto, la malattia gli venne incontro, in differenti forme tra nevrosi personali e disturbi fisici.
I numerosi autoritratti saranno il paradigma con cui tracciare i suoi stati d’animo e le sue vicissitudini, in cui lascia impresso il segno della drammaticità in cui versa, denudandosi sulla tela di tutte le emozioni e proiettando tutto il suo tormento interiore. Egli scava nella fisionomia malata, scrivendo ancora “I miei quadri sono i miei diari”, e così possiamo leggere la sua estrema profondità attraverso l’espressione delle sue pennellate. Nonostante la manifestazione più cupa del suo stato d’animo perennemente depresso che lo tenevano preoccupato per la vulnerabilità dell’essere umano, egli fu un artista altamente prolifico, che lasciò un considerevole corpus artistico fatto di circa 1.150 dipinti, 17.800 stampe, 4.500 acquerelli, disegni e 13 sculture, oltre a scritti e note letterarie per la città di Oslo.
Durante l' inverno tra il 1918 e il 1919, Munch contrasse l’Influenza Spagnola, incredibilmente superò l’attacco del virus trasformando quell’ esperienza, che lo tenne mortalmente malato, in un flusso pittorico di incontenibile energia espressiva. Nel 1918 in Irlanda furono imposte norme rigorose, tra cui l’isolamento, per combattere la pandemia. Solo in Irlanda tra il Giugno 1918 e l’Aprile del 1919 morirono circa ventitremila persone, per un totale approssimativo di circa ottocentomila contagiati in tutta l’isola. Munch si ammalò all’ età di 56 anni, non era ancora anziano, eppure il suo aspetto appare estremamente vecchio. La barba e i capelli sono ormai grigi, diradati, il volto scarno, l’artista è seduto nella solitudine della sua camera, dove è costretto a stare in quarantena, indossa una vestaglia, sulle gambe una coperta, in lontananza possiamo intravedere il letto con la coltre scomposta. I colori vivi dell’opera acquisiscono una nota stridente data dall'isolamento di quel momento, il mondo è in piena pandemia, e Munch restituisce alla storia il triste dramma fatto non solo di malattia, ma anche di solitudine. Possiamo solo provare ad immaginare lo strazio di quei giorni con la febbre alta, le difficoltà respiratorie, i dolori in tutto il corpo, il totale senso di spossatezza esistenziale dato dalla paura di non riuscire a sopravvivere alla malattia.
Munch, in quella estrema circostanza realizzò non solo dipinti, ma anche schizzi e disegni, in cui descrisse le varie fasi della malattia e la sensazione angosciante dell’avvicinarsi della morte. In realtà fu proprio al disegno che dedicò maggior attenzione, rimanendo in qualsiasi circostanza e in qualsiasi luogo, il mezzo con cui poteva esprimersi con istantanea immediatezza.
Nonostante l’infezione di quel corpo già provato da vicissitudini precedenti, Munch superò l’Influenza Spagnola, e proseguì l’elaborazione di quella esperienza realizzando il suo “Autoritratto dopo l’ Influenza Spagnola”(Olio su tela 1919, Catalogue Raisonné: Woll M 1297 The Munch Museum Oslo, MM.M.00069), l’aspetto è ancora quello segnato di chi ha dovuto affrontare una terribile malattia, il volto carico di malessere, forse il corpo ancora febbricitante, l’oppressione toracica data dalla mancanza d’aria e la disperazione per il totale isolamento, eppure seppur lievi sono tangibili i segni verso la ripresa, l’uomo è in piedi, la camera ha ripreso vitalità, forse ha nuovamente la forza di creare, quel senso di inquietudine dell’opera precedente si è attenuato, la vita ora può ricominciare. Munch spettatore e poi protagonista della pandemia, come in uno spettacolo teatrale in tre atti, l’aveva osservata da lontano, l’aveva aspettata…ed infine era arrivata.
La medicina in quegli anni stava appena avanzando e stava solo iniziando a comprendere il funzionamento delle malattie infettive muovendo i primi passi verso la diagnostica e la medicina, ma il pittore norvegese, vinse la sua battaglia. Lo spettro di quell'uomo malato oggi rimane attraverso le sue opere, senza le quali non avremmo una testimonianza così significativa dell’impatto della pandemia sugli artisti dell’epoca. Munch poi si affermerà con successo nel panorama artistico per i successivi 26 anni, spegnendosi serenamente nel 1944 all’età di 81 anni. Nel 2003 la rivista scientifica “Emerging Infectious Diseases” pubblicata dal Centers for Disease Control and Prevention (CDC) , specializzato sulle malattie infettive, dedica la sua copertina proprio a questo sopravvissuto della Storia dell’Arte alla grave pandemia dell’Influenza Spagnola.
Meno fortunato fu invece il destino del pittore austriaco Egon Schiele (Tulln an der Donau, 12 Giugno 1890 – Vienna, 31 Ottobre 1918), esponente di spicco dell’Espressionismo Viennese. Ammesso all’ Accademia di Belle Arti all’ età di 16 anni, abbandonò ben presto la scuola di fronte all’ aridità degli insegnamenti che lo costrinsero a dipingere “secondo gli antichi”. Andò a cercare così i suoi modelli al di fuori dell’ambito accademico, sino all’ incontro decisivo con quello che diventerà suo Maestro e amico Gustav Klimt (Vienna, 14 Luglio 1862 – Vienna, 6 Febbraio 1918). Schiele si dedicò alla realizzazione di ritratti che rappresentavano una fonte redditizia data dalle commissioni per i ceti più abbienti, ma non riuscì mai ad allargare gli incarichi oltre la sua cerchia e le sue amicizie. Ma se con i ritratti mantenne una linea più accademica, espresse la sua personalità attraverso gli autoritratti, circa un centinaio, in cui irruppe la tradizione pittorica non rappresentando la sua identità sociale, quanto l’animo più oscuro del proprio io interiore. I nudi divennero in assoluto la sua cifra stilistica più significativa. All’ età di soli 23 anni era già un artista discretamente riconosciuto, viaggiava tanto e il successo lo ricompensava anche economicamente. Ma il 1918 fu un anno decisivo: a Gennaio morì il suo mentore Gustav Klimt a causa di un ictus, Schiele espose alla quarantonevesima mostra della Secessione Viennese e gli venne assegnata la sala principale, a quel punto era considerato il più importante pittore austriaco, e mentre si stava prospettando un futuro di fama e riconoscimenti, la pandemia dell’Influenza Spagnola, troncò la sua promettente carriera artistica. Vienna in quell’ anno iniziava ad avere carenze di rifornimenti di carburante e cibo, e un numero elevatissimo di autisti di tram furono colpiti dall’ influenza e i mezzi di trasporto furono limitati. A ottobre la pandemia era diventata così grave che le scuole di Vienna furono chiuse.
La moglie e musa Edith Harms, sposata nel 1914 si ammalò verso la metà di Ottobre 1918, quando era incinta di sei mesi. In quell’occasione Schiele scrisse alla madre le seguenti struggenti parole:
“Alla malattia di Edith si è aggiunta la polmonite. E’ al sesto mese di gravidanza, la malattia si aggrava ed è in pericolo di vita; mi sto ormai preparando al peggio”.
Edith infatti morì il giorno seguente appena venticinquenne. Ma il virus è impetuoso e non fa sconti. Schiele aveva accudito con amore la propria compagna, ritraendola anche durante la malattia, ma contagiandosi a sua volta. Tre giorni dopo, il 31 Ottobre 1918, morì a soli 28 anni. Il suo ultimo disegno realizzato il 28 Ottobre 1918 rappresenta il volto oscuro della pandemia: la morte che di lì a breve sarebbe sopraggiunta. Schiele ha guardato dritto negli occhi il virus dell’Influenza Spagnola, immortalandolo nel tempo, lasciandoci la memoria storica del suo dolore.
Tamara Follesa
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