INDICE DELL’ARTICOLO
1. La copia non è un originale
2. Breve excursus storico
3. Quanto vale una copia?
1. LA COPIA NON è UN ORIGINALE
«Guardatevi, ladri ed imitatori tutti delle fatiche e dei talenti altrui, dal posare le vostre mani temerarie sulle nostre opere»[1]. Albrecht Dürer, 1511 (Fig. 1)
Una delle principali questioni, che desta talvolta non pochi errori in campo artistico, è dato dal fenomeno delle copie. L’informazione approssimativa che dilaga anche attraverso il web ha generato ulteriore confusione per tutti coloro, che pur non essendo specialisti del settore, hanno necessità, per diversi motivi, di comprendere meglio le dinamiche del riconoscimento artistico.
L’imitazione e la contraffazione esistono da quando l’uomo ha iniziato a produrre le sue prime opere d’arte. Da quando è esistito l’artista, al suo fianco si sono formati anche il copista e il falsario.
La questione delle copie va ben distinta da quella delle falsificazioni intese in senso stretto in ambito fraudolento, occorre infatti distinguere quegli artefatti frutto di contraffazione forgiati volutamente (e talvolta sapientemente) con l’intento di ingannare il mercato e quei pezzi che invece, provenienti dalle botteghe come copie accademiche, a causa di errate attribuzioni e opinioni, si ritrovano a veder il loro status attributivo elevato al maestro di cui sono i duplicati.
Benché quindi l’origine concettuale e intenzionale delle due tipologie di manufatti sia diametralmente in opposizione, anche le copie talvolta finiscono per trascinare con sé le medesime problematiche dei falsi strettamente intesi: ossia il riconoscimento e l’attribuzione di un esemplare che non è quello originale, con la sua più ovvia conseguenza, ossia avere un valore oggettivo intrinseco ed soprattutto economico, ben lontani dall’opera primigenia.
In questo contributo una breve ricognizione panoramica volta a fornire i primi rudimenti per comprendere al meglio le differenze, non solo meramente esecutive ma anche nella loro accezione pecuniaria, delle copie antiche da un capolavoro noto per mano di autori seguaci o più banalmente imitatori di un dato modello pittorico in epoche contemporanee o successive all’originale.
Tale produzione rappresenta una grandissima fetta del panorama artistico e numerosissime di queste copie imperversano il mercato, in particolar modo quello privato, destando talvolta insidiose controversie tra il proprietario che si ritrova in mano un’opera accompagnata da pseudo-documenti attestati da esperti di epoche passate o etichette antiquarie poste sul retro che riferiscono l’opera all’autore di cui in realtà è una semplice copia. In alcuni casi ancora ciò avviene per autoconvincimento personale ritenendo di possedere un bene di altissimo valore, si ritrovano a dover accettare con grande amarezza (o in alcune circostanze a non voler proprio accettare un parere attuale fondato su studi ed indagini oggettive) la verità di essere in possesso di una mera copia dal valore di poche migliaia di euro.
Il primo passo per non inciampare in tali equivoci, sia che si tratti di un collezionista appassionato e più avvezzo alla storia dell’arte, finanche al suo conseguente mercato, piuttosto che un proprietario occasionale (nella fattispecie solitamente chi eredita beni ma che sino a quel momento non era mai stato interessato alla materia), è senza dubbio la comprensione.
2. BREVE EXCURSUS STORICO
Come scrisse negli anni ‘50 il giornalista tedesco Heinrich Schmitt, tra l’originale e il falso vero e proprio esiste tutta una gamma di manifestazioni intermedie, a questa corretta definizione vanno aggiunte un’ampia serie di forme ibride che creano una moltitudine di sottoinsiemi che occorre valutare e identificare caso per caso, il cui elemento principale di distinzione è certamente la qualità pittorica che può avere scale di valori differenti[2].
Il tema delle copie è vastissimo e abbraccia una quantità notevole di casistiche. La copia non va confusa con la replica, che convenzionalmente si riferisce ad un modello riprodotto più volte da uno stesso artista, o quanto meno con una sicura attestazione alla sua bottega, uno degli esempi più conosciuti di replica è certamente La Vergine delle rocce [3] di Leonardo da Vinci (1452-1519).
La copia è intesa ad esempio in quelle circostanze in cui per la sua eccezionale fattura viene scambiata per una replica dello stesso artista, generando diatribe accademiche (e giudiziarie) circa la sua eventuale autenticità, come nel caso dei due esemplari di Belle Ferronière leonardeschi di cui ho parlato in questo contributo Il fascino del doppio: la Belle Ferronière o pensiamo alla tipologia di copie provenienti da botteghe come quella di Raffaello Sanzio (1483-1520), uno dei primi laboratori rinascimentali in cui la copia, oltre ad avere valore didattico attraverso il metodo di apprendimento della riproduzione e imitazione dei modelli del maestro sino all’acquisizione completa della sua tecnica e del suo stile, aveva un valore strumentale alla circolazione delle sue opere[4].
Oppure in quei casi ancora in cui la copia realizzata con finalità accademiche ha un imitatore assai noto, che rende la copia stessa più celebre dell’originale come avvenne con la versione della Santa Prassede di Johannes Vermeer (1632-1675) copia da Felice Ficherelli di cui ho parlato in quest’altro contributo L’Ultimo Vermeer: la Santa Prassede (Fig. 2).
Alcuni artisti poi tentavano con il proprio stile di reinterpretare, e magari migliorare, un’opera di un maestro da lui ammirato. Un esempio noto di questa prassi è stato eseguito da Eugène Delacroix (1798-1863) con La fuga di Loth (Olio su tela 32,5 x 40,5, ante 1854, Museo del Louvre, Dipartimento di Pittura, Parigi, Inv. RF1942-15- Fig. 3) copia reinterpretata da un originale di Peter Paul Rubens (1577-1640).
Proprio nell’ambito di Rubens non si può non menzionare il suo attivissimo laboratorio che operava come una vera e propria azienda, il cui prodotto delle maestranze impiegate ha spesso reso meno nitidi i confini tra l’operato del maestro e dei suoi discepoli, o ancora in ambito olandese Rembrandt Van Rijn (1606-1669), che ha creato nella sua fucina veri e propri emuli, in grado di produrre un numero sempre più alto di opere che lui stesso avrebbe venduto spacciandole per sue apponendo, come tocco finale, la sua firma e rendendo davvero arduo, ancora oggi, il ruolo degli esperti [5]. E come non citare in ultima istanza il grande dibattito artistico che da sempre si è creato attorno all’ambito caravaggesco, in cui il problema dei doppi, delle repliche e delle copie, è un nodo cruciale nella disamina attributiva, e potrei proseguire ulteriormente con una quantità notevole di esempi.
La copia, oltre le funzionalità sopra descritte, è stata un grandissimo strumento per la circolazione dei capolavori inamovibili, come i grandi cicli di affreschi o le pale d’altare o quale testimonianza storica di capolavori perduti.
La complessità con cui sviscerare il problema critico delle copie necessiterebbe di soffermarsi in specifici archi temporali e geografici, per ritessere in senso diacronico e sincronico, le intricate maglie che nei secoli si sono estese attorno ai multipli declinati in tutte le loro varianti. Cito al riguardo per chi avesse interesse ad approfondire l’argomento la splendida pubblicazione a cura del Professor Pietro di Loreto[6] che capitolo dopo capitolo pone l’accento su specifici focus artistici, ricomponendo il variegato quadro attorno ad una lettura critica così articolata. Il dibattito sulle questioni legate alla distinzione tra copie e originali, muove i suoi primi passi già nel Seicento.
Nel 1681 lo storico dell’arte e pittore Federico Baldinucci (1624-1696) in una lunga lettera al Marchese Senator Vincenzo Capponi, luogotenente del Granduca dell’Accademia del disegno, argomenta nella sua dissertazione, utilità e criticità delle copie (Fig. 4):
«(…) nella franchezza e sicurezza del dintorno, ma nell’impastar de’ colori, nel posar le tinte, né tocchi, né ritocchi, nel colorito, e molto in certi colpi, che noi diremmo disprezzati, e quasi gettati a caso, particolarmente nel panneggiare, i quali veduti in dovuta distanza fanno conoscere in un tempo stesso e l'intenzione del pittore, ed una meravigliosa imitazione del vero; cosa che nelle copie rare volte si vede, se non v'è qualche tocco del maestro.
Dico dunque che tali osservazioni son le regole ordinarie delle quali
si vagliano i periti per giudicare se le pitture siano originali o copie».[7]
Ampliando il discorso alla riflessione completa esposta nella lettera dal Baldinucci, egli sosteneva che gli espedienti artistici con cui i copisti riproducevano un dato modello pittorico erano certamente funzionali alla perfetta riproduzione del contorno e del disegno, come la quadrettatura o lo spolvero, ma se non si fosse stato abbastanza abili e capaci con le stesure pittoriche si sarebbe finito per creare una copia di scarsissima qualità[8] . Parallelamente egli sosteneva altresì che proprio per il fatto che i grandi maestri erano pochi, e conseguentemente non erano tanti i capolavori in circolazione da essi creati, le copie (quelle di buona e pregevole fattura) erano necessarie affinché gli allievi pittori potessero imparare l’arte. A questo si aggiunga che il proliferare di esemplari meritevoli avrebbe contribuito al far fruire la conoscenza dei capolavori.
«T'ali cose dunque supposte , io dico che le copie delle buone pitture furon sempre , e saranno alle arti nostre necessarissime, perché essendo stati, com’io diceva , pochi i pittori eccellenti , e poche, per conseguenza, le lor pitture , e quelle o nascose , o annesse alle muraglie , ed essendo dotate di tante belle parti necessarie ad ogni artefice per imparare , tutto quello che non così presto , e facilmente si può apprendere col solo studio delle figure al naturale , è pur necessario che vi sia modo del render possibile a beneficio degli studiosi la per altro impossibile comunicazione per tutto il mondo, e ad ogni persona di si dotti esemplari; il che non può farsi se non con le buone copie (…)»[9]
A partire dalla fine del 1700 con la costituzione dei grandi spazi espositivi aperti al pubblico, la copia sino ad allora esercitata nell’ambito di bottega, diventa prassi consolidata per tutti quei pittori che decidevano di impiegarsi nello studio e nella riproduzione di maestri di epoche passate, per carpirne tecnica e procedimenti, si affermarono i cosiddetti pittori da museo, che hanno contribuito alla diffusione nel mercato di copie da antichi maestri. Ancora oggi in alcune realtà museali si invita alla pratica della copia: mi viene in mente in Italia a tal proposito la Pinacoteca di Brera di Milano, che dispone apposite sedute davanti a imponenti capolavori di ogni epoca e stile (Fig. 5).
La distinzione, la valutazione e la stima di un dipinto originale da una copia, per ragioni non solo estetiche, ma anche di mercato, è una questione che ha iniziato a sollevare perplessità nei primi anni dell’Ottocento in ambito romano, quando, a seguito della dispersione di collezioni di importanti famiglie dell’epoca, aumentò il fruire di dipinti antichi di dubbia autenticità e di scarsa qualità, probabilmente realizzati dai pittori esclusivamente con fini artistici, ma poi immessi nel mercato da galleristi e mercanti senza scrupoli spacciandoli per originali[10].
Nel 1920 lo storico dell’arte francese Émile Bayard (1868-1937) sollevò il problema delle imitazioni e delle contraffazioni [11] illustrando quanto mercanti, banche e copisti compiacenti, facessero già affari d’oro a prescindere dall’abilità esecutiva del contraffattore: non sempre infatti era l’imitatore bravo, ma più semplicemente erano i collezionisti incapaci di riconoscere l’autentico dalla copia e così che aumentò esponenzialmente il propagarsi di opere antiche, dipinti, marmi, disegni, mobili, oggetti riprodotti fedelmente in stile, ma realizzati tre, quattro, cinque o sei secoli più tardi, o addirittura decine di secoli più tardi. Moltissimi di quei beni hanno poi seguitato a circolare per decenni, tramandati di generazione in generazione, e venduti per essere un originale, così come testimoniavano le carte dell’epoca.
Il confronto diretto e la ripetuta osservazione appaiono elementi imprescindibili per poter discernere un originale da un’imitazione.
3.QUANTO VALE UNA COPIA?
In questa occasione ho proposto attraverso esempi fotografici opere afferenti quella fetta di mercato che vede protagonisti una serie infinita di esemplari derivanti da uno stesso prototipo, nella stragrande maggioranza dei casi di qualità nettamente inferiore all’originale, se non addirittura scadente, in cui si oscilla tendenzialmente attorno a due dinamiche : la prima è quella di ricollocare in maniera corretta l’attribuzione data al caposcuola (diciamo questa per quanto riguarda la mia esperienza personale è la casistica più diffusa nel mercato privato), la seconda è quella di dover individuare il modello di derivazione di una copia non riconosciuta (situazione che ho visto configurarsi più frequentemente in piccole case d’asta estere, specialmente quando si ha a che fare con la pittura italiana).
Un esempio di quest’ultima circostanza citata si può riscontrare all’interno della vendita proposta da Lawrences Auctioneers nel Regno Unito, Antiques and Collectables tenutasi tra il 10 e il 12 Settembre 2019, qui in cui non viene identificata correttamente una copia dal celebre dipinto di Tiziano Venere e Adone (Fig. 6), di cui sono noti e conservati in importanti musei almeno sei versioni di questo esemplare, nello specifico caso rifacendosi al modello conservato al Museo del Prado di Madrid. Al di là della scarsa qualità della copia proposta, afferente al XIX Secolo, si denota l’approssimativa competenza nell’attribuire l’opera ad un generico After Rubens, con un inesatta individuazione non solo dell’autore, ma anche dell’iconografia, che non essendo identificata viene descritta come Young man with female nude in a classical landscape (un giovane uomo con una donna nuda in un paesaggio classico), eppure anche questa è notissima e facilmente riconoscibile poiché reinterpretata dagli artisti di tutti i tempi (lo stesso Rubens dipinse la sua personale versione ma che comunque deriva dal modello precedente tizianesco) e tratta dagli episodi raccontati nelle Metamorfosi di Ovidio.
Come si può evincere dalle didascalie dei vari esempi proposti il discrimen principale, oltre l’evidente qualità, è la fascia di prezzo in cui queste copie si collocano. La copia riflette anche il gusto storico del momento e la maggiore o minore richiesta del mercato di una data tipologia di manufatto, afferente a un periodo storico piuttosto che un altro o una corrente artistica specifica, ne determinano la sua oscillazione nelle fasce di stima. Per cui ci si ritrova ad osservare fenomeni tra loro diametralmente opposti: da un lato opere d’arte che raggiungono cifre stellari a sei zeri, dall’altro prototipi che ottengono a fatica aggiudicazioni da poche migliaia di euro.
Ed ecco imbattersi dinanzi ad una copia anche di discreta fattura di un capolavoro di Peter Paul Rubens come La Madonna con bambino (Olio su tavola 105.7 x 73.9 cm. 1615/1618, Smithsonian American Art Museum Washington, Gift of John Gellatly, n. 1929.6.91) il cui orinale varrebbe milioni di euro, mentre la copia venduta da Christie’s ad Amsterdam nel 2008 appena 6.500 euro (Fig. 7).
A determinare il prezzo nel caso di copie è anche l’arco temporale in cui queste sono state create: rimanendo ancora nell’ambito rubenianum, ecco quindi una copia contemporanea dal Ratto delle figlie di Leucippo (Olio su tela 224 x 211 cm., 1615-1618 Alte Pinakothek, Monaco di Baviera) venduta da Auctionet Stoccolma nel 2018 per la cifra irrisoria di 195 euro (Fig. 8). Simile sorte per una copia del XIX secolo ripresa dall’affresco della Natività di Carlo Maratta (1625- 1713) situato nella Chiesa dei Falegnami a Roma, battuto ad un’asta per 401 euro (Fig. 9).
Due esemplari differenti dell’Allegoria della carità copia da Guido Reni (1575-1642) conservata alla Galleria Palatina di Palazzo Pitti di Firenze, vendute in ambito estero, hanno raggiunto entrambe un costo che si aggira attorno ai 6.000 euro (Fig. 10).
In controtendenza la copia novecentesca del Ritratto di un anziano con un bastone e un cappello di Rembrandt è stata proposta da Mehlis Auktionen in Germania con una stima di 100.000 euro, decisamente eccessiva per la qualità del dipinto messo all’incanto e per il periodo storico a cui viene ricondotto (Fig. 11).
Certo esistono alcune rare circostanze in cui anche la copia ha raggiunto cifre da capogiro come nel già citato esemplare di Belle Ferronière da Leonardo Da Vinci, di cui ho scritto nel contributo precedente (Il fascino del doppio: la Belle Ferronière) venduto per 1.098.952 euro, ma è possibile asserire che questa fattispecie rappresenta l’eccezione e non la regola.
Eppure, sovente soprattutto nell’ambito delle trattative private, non è inusuale trovare scadenti copie di bottega, proposte da incompetenti squali assettati di profitto, come autentici originali da centinaia di migliaia di euro, o addirittura da milioni di euro. Ed ecco perché è un attimo cadere nell’inganno della duplicità.
TAMARA FOLLESA
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NOTE
[1] Albrecht Dürer, estratto dal Colophon della Glorificazione della Vergine, Vita della Vergine, edizione di Norimberga, 1511;
[2] Arnau F., Arte della falsificazione, Falsificazione dell’arte, Feltrinelli Editore, Milano, 1959, p. 7;
[3] Sono noti tre modelli ascrivibili a Leonardo e la sua bottega: il primo (olio su tavola 189,5 x 120 cm, 1495-1508) conservato alla National Gallery di Londra; il secondo (olio su tavola trasferito su tela 199 x 122 cm, 1483-1486) esposto al Museo del Louvre di Parigi; infine una terza versione attribuita convenzionalmente allievo leonardesco Giampietrino (1480/85-1553), conosciuta come versione Cheramy e appartenente ad un collezionista privato (olio su tavola trasferita su tela 154,5 x 122 cm);
[4] Tosini P., Raffaello e le sue copie nel Cinquecento: trama e ordito di una questione complicata in «Originali, repliche, copie. Uno sguardo diverso sui grandi maestri» a cura di Pietro di Loreto, Ugo Bozzi Editore, Roma 2018, p. 26;
[5] Arnau F., Arte della falsificazione, Falsificazione dell’arte, Feltrinelli Editore, Milano, 1959, pp. 47-48;
[6] Loreto P. (a cura di), Originali, repliche, copie. Uno sguardo diverso sui grandi maestri, Ugo Bozzi Editore, Roma 2018;
[7] Bottari G., Ticozzi S., Raccolta di lettere sulla pittura, scultura ed architettura, Milano, 1822 Vol. II, pp.494-534, p. 510;
[8] Di Giuseppe di Paolo V., Come distinguere la copia dall’originale tra teorizzazione e connoisseurship in «Il valore della copia nell’Accademia di Francia (1666-1669) funzioni, modelli, destinazioni e pratiche», Fondazione 1563 per l’arte e la cultura, collana alti studi sull’età e la cultura del Barocco, 2017 pp. 11-14, p. 12.;
[9] Bottari G., Ticozzi S., Raccolta di lettere sulla pittura, scultura ed architettura, Milano, 1822 Vol. II, pp.494-534, p. 528;
[10] Mazzarelli C., L’occhio del conoscitore e la questione della ripetizione tra copie e repliche: alcune note intorno al caso de La Fortuna di Guido Reni nella storia critica in «Il metodo del conoscitore» Stefan Albl con Alina Aggujaro (a cura di), Artemide, Roma, 2016 p. 273;
[11] Bayard E., Les faux tableaux in «L'Art de reconnaitre, les fraudes. Peinture, sculpture, gravure, meubles, dentelles, céramiques, etc.…» , R. Roger Et F. Chernoviz, Parigi, 1920, Chapitre VI, pp. 131-164.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
- AA.VV., Art Forgery, Metropolitan Museum of Art Bulletin New York, Vol. XXVI n. 6, Febbraio 1968;
- Arnau F., Arte Della Falsificazione: Falsificazione Dell’arte, Feltrinelli Milano, 1953;
- Bayard E., Les faux tableaux in «L'Art de reconnaitre, les fraudes. Peinture, sculpture, gravure, meubles, dentelles, céramiques, etc..», R. Roger Et F. Chernoviz, Parigi, 1920, Chapitre VI;
- Bottari G., Ticozzi S., Raccolta di lettere sulla pittura, scultura ed architettura, Milano, 1822 Vol. II;
- Di Loreto P. (a cura di), Originali, repliche, copie. Uno sguardo diverso sui grandi maestri, Ugo Bozzi Editore, Roma 2018;
- Di Giuseppe di Paolo V., Il valore della copia nell’Accademia di Francia (1666-1669) funzioni, modelli, destinazioni e pratiche in «Fondazione 1563 per l’arte e la cultura”, collana alti studi sull’età e la cultura del Barocco», 2017;
- Mazzarelli C. L’occhio del conoscitore e la questione della ripetizione tra copie e repliche: alcune note intorno al caso de La Fortuna di Guido Reni nella storia critica in «Il metodo del conoscitore», Albl S., Aggujaro A., (a cura di), Artemide, Roma, 2016 p. 273-289;
- Tosini P., Raffaello e le sue copie nel Cinquecento: trama e ordito di una questione complicata in «Originali, repliche, copie. Uno sguardo diverso sui grandi maestri» a cura di Di Loreto P. Ugo Bozzi Editore, Roma 2018.
ARCHIVI/FONTI
- Antiques & Restoration Lothar Czambor, Erfurt;
- Alte Pinakothek, Monaco di Baviera;
- Auctionet Stoccolma;
- BeWeB | Portale dei beni culturali ecclesiastici;
- Christie’s Casa d’Aste;
- Dorotheum Casa d’Aste;
- Galleria Palatina di Palazzo Pitti, Firenze;
- Gemaldegalerie Alte Meister, Dresda
- Invaluable;
- Lawrences of Bletchingley Auctions;
- Mehlis Auktionen, Germania;
- Museo del Louvre, Parigi;
- Museo Nazionale d’Arte Occidentale, Tokyo;
- Pandolfini Casa d’Aste;
- Pinacoteca di Brera, Milano;
- Smithsonian American Art Museum,Washington;
- Sotheby’s Casa d’Aste;
- Stockholms Auktionsvertket, Stoccolma.
Breve dissertazione sui falsi: Vincent Van Gogh