INDICE DELL’ARTICOLO
1. L’imitazione è la più sincera delle adulazioni
2. Non l’ho dipinto io
3. Monet e Tom Keating
5. Quel falso è vero?
1. L'IMITAZIONE E' LA Più SINCERA DELLE ADULAZIONI
«Caro Signor Durand, ho ricevuto la fotografia del quadro che vi è stato offerto, quadro che non è mio, ma la cui firma falsa è stata perfettamente imitata. Dovreste assolutamente e a nome mio farlo sapere e distruggerlo. In tutta fretta, i miei migliori saluti [1]».
Queste le parole scritte nel 1908 dal pittore francese Claude Monet (1840-1926, Fig. 1) al suo mercante d’arte Paul Durand-Ruel (1831-1922): all’età di sessantotto anni l’artista impressionista più importante di tutto il movimento, all’apice del suo successo, non solo era considerato un grande maestro per collezionisti ed investitori, venerato dai contemporanei pittori che ne amarono lo stile, ma fu anche enormemente imitato e contraffatto quando ancora in vita.
La costante ricerca della luce, la freschezza della resa pittorica nella rappresentazione della vita contemporanea dell’epoca, catturata in attimi fugaci racchiusi nell’impressione di un momento e di un istante che albergano in poche ore di luce, capace con i suoi bagliori, i suoi riflessi, i suoi cambi tonali, di conferire un aspetto sempre nuovo ad un medesimo soggetto, sono stati il fil rouge di un’intera corrente artistica. Per fermare questo luminoso tempo, Monet e il gruppo di pittori che aderirono al movimento impressionista, predilirono l’esecuzione all’aria aperta, “en plein air”, in cui i riverberi della luce e del colore potevano manifestarsi al meglio. Dipingere all’aperto, con l’intento di catturare uno specifico lasso di tempo, significava dover lavorare in totale velocità affinché le condizioni atmosferiche e metereologiche non mutassero, determinando il conseguente cambiamento di ombre, chiarore, riflessi, cromie, variazioni tonali. Per raggiungere tali finalità Monet in particolar modo attuò specifiche tecniche pittoriche che gli consentirono di raggiungere una straordinaria espressività ottenuta per mezzo del pennello.
Dapprima schernito e deriso, non apprezzato per l’innovazione della sua visione pittorica, a discapito di un inizio costellato di difficoltà, all’età di 50 anni finalmente, arrivò la consacrazione artistica, che gli fece raggiungere ricchezza, agio economico e fama [2].
E quando la fama arriva, sopraggiunge la figura losca del mondo dell’arte, l’altra faccia della medaglia dell’ingegno creativo, che nell’atto terzo del suo sceneggiato vede sulla scena la mimica imitativa di falsi e falsari.
Il principale incentivo alla contraffazione è certamente quello a scopo di lucro, ma le implicazioni in gioco sono costellate altresì da motivazioni e spinte a carattere psicologico. Lo scrittore, clerico, nonché collezionista inglese Charles Caleb Colton (1780-1832) nel 1849 scrisse:
«L’imitazione è la più sincera delle adulazioni[3]».
Laddove idee e innovazione prosperano, c’è sempre chi è pronto a raccogliere la semina fatta da altri; pertanto, non sorprende che un artista del calibro di Claude Monet si dovette scontrare con tale realtà.
Nel 1894 in un’asta di Parigi [4], il dipinto I tacchini (Monet C., Les Dindons, olio su tela 174 x 172,5 cm, 1877, Musée d'Orsay, Parigi, Fig. 2), fu venduto per la cifra di 96 franchi, vent’anni dopo la somma spesa per quest’opera fu di 96.000 franchi [5]; si può facilmente intuire pertanto come il valore pecuniario del pittore fosse in rapida ascesa. Il dipinto appena menzionato faceva parte della collezione di Théodore Duret (1838-1927), scrittore e critico d’arte francese, tra i primi sostenitori e ammiratori dei pittori Impressionisti, che non solo ne tesse le lodi, ma ne collezionò le opere. L’autorevolezza acquisita dall’estimatore in merito ai moderni francesi fu così notevole e apprezzata, che l’appartenenza di una data opera nella sua collezione divenne un segno di autenticità. Il riscontro ottenibile grazie al suo nome non passò certo inosservato ai falsari dell’epoca che durante la sua vecchiaia riuscirono a fargli autenticare numerosi falsi, facendoli apporre il timbro che contraddistinse la sua collezione, Collezione Duret, preceduto dal nome dell’artista presunto che si voleva autenticare [6].
L’operato fraudolento perpetuato vedeva quindi agire non solo sull’opera d’arte vera e propria intesa come oggetto e materia, ma su tutto il sistema artistico ad essa connesso, in questo caso facendo leva su una provenienza falsificata. Occorre tenere presente al riguardo, così come ho illustrato nel mio contributo precedente (Breve dissertazione sui falsi: Vincent Van Gogh), gli innumerevoli rischi, date le diversificate azioni atte ad ingannare l’origine di un’opera, di imbattersi ai giorni nostri, in manufatti prodotti dall’azione criminale vigente già cento anni fa, scambiando (in buona fede?) e interpretando elementi d’epoca come portatori assoluti di autenticità.
La storia ci dimostra che così non è.
Per tali ragioni a partire dal 1908 Monet si imbatté sempre più spesso in opere non sue ma a lui assegnate.
All’epoca, così come avviene ancora oggi in era contemporanea, se l’artista contraffatto è ancora vivente, il suo parere per il controllo sulle opere è decisivo.
2. NON L’HO DIPINTO IO
Oltre che prolifico pittore, Claude Monet è stato un assiduo scrittore di lettere: nell'arco della sua esistenza ne ha inviate quasi duemila. Il lungo carteggio lasciato, accuratamente catalogo e archiviato da Daniel Wildenstein [7], ha permesso di conoscere in maniera più profonda le vicissitudini e gli stati d'animo che hanno governato le sue giornate [8]. Tra i protagonisti principali di questo vasto epistolario, vi erano i mercanti d’arte Paul Durand-Ruel (1831-1922) con i figli George (1866-1931) e Joseph (1862-1928) e l’imprenditore d’arte francese Gaston Bernheim-Jeune (1870-1953) dell’omonima galleria parigina [9]. Attraverso il loro scambio si delineano con precisione le dinamiche legate al sistema artistico di quegli anni: da un lato l’attività creatrice del pittore, dall’altro la mercificazione di tale operato da parte dei due mediatori, fatta di solleciti, trattative, mostre, esposizioni, cataloghi, critiche, rendicontazioni e scambi di denaro, il tutto finalizzato ad incentivare e promuovere l’arte di questi nuovi pittori della modernità così dirompenti e affascinanti al tempo stesso.
Il racconto emerso pertanto nasce dalle dirette parole dell’artista che attraverso le sue memorie sigilla la testimonianza delle vicende, che non hanno bisogno alcuno di interpretazioni o parafrasi e che citerò a seguire per narrare la questione dei falsi Monet. Le lettere in cui l’artista menziona falsi dipinti o le vicende ad esso collegati, vagliate dalla sottoscritta in questa occasione, sono undici [10]. L’artista si imbatté in più circostanze in falsificazioni dei suoi dipinti: il caso più eclatante, che assunse connotazioni giudiziarie e generò l’attenzione della stampa, fu tra il 1908 e il 1909; molto più tardi, Monet riferì di presunti falsi rispettivamente nel 1920 e nel 1924.
Il 18 luglio 1908 sul quotidiano francese Le Figaro [11] (Fig. 3) il critico d’arte Arsène Alexandre (1859-1937) dissertò sulla questione dei falsi Monet. Egli esortò immediatamente il lettore sostenendo che nella stagione appena trascorsa il mercato dei falsi del pittore di Giverny assieme ai falsari che li avevano prodotti, aveva avuto degli ottimi affari. L’ultima vicenda ebbe inizio quando uno dei più grandi mercanti di Parigi, Paul Durand-Ruel (1831-1922), si imbatté in alcune opere di primaria importanza dell’impressionista francese nell’ambito del mercato tedesco, osservando che nonostante l’entusiasmo diffuso di critica ed estimatori, non raggiunsero le medesime quotazioni riscontrabili nel mercato parigino: a Parigi si parlava di decine di migliaia di franchi, in Germania appena di tremila franchi. Questo aspetto lo incuriosì molto e chiese di poter vedere tali opere di proprietà della collezione di M. Huntel, che erano state acquistate sotto il consiglio di un importante direttore di museo di una città del nord Germania. Appena il mercante poté visionarle non ebbe dubbi nel sostenere con gran forza la loro falsità, a tal punto che il collezionista dovette credergli mettendo in dubbio la competenza del conservatore del museo in materia di pittura moderna [12]. I dipinti furono così affidati al mercante che li portò a Parigi, con l’intento di seguire le tracce del possibile falsario ed essere mostrati a Monet che decretò il suo verdetto senza possibilità di appello attraverso la seguente lettera:
Lettera di Claude Monet al mercante d’arte Paul Durand-Ruel
Giverny, lunedì 22 giugno 1908
«Caro Signor Durand-Ruel, io ho ricevuto i due quadri comperati da uno dei vostri clienti d’Alemagna, e ve li rispedisco oggi stesso. Sono due spaventevoli croste, e vi assicuro che se non fosse per la preghiera che mi avete rivolto di non cancellare la firma e di renderveli tali e quali, io li avrei stracciati come era nel mio diritto, e intendo che dopo il processo che deve intentare il vostro cliente e la punizione del falsario, i due quadri siano distrutti alla presenza di testimoni o che mi siano rimandati [13]».
Nonostante l’immediata indignazione del pittore e la volontà di voler distruggere quelle che egli definì due “spaventevoli croste”, il mercante lo convinse a sporgere denuncia affinché la rete dei falsari potesse essere interrotta, rete che vedeva nell’occhio del mirino non solo Monet, ma anche falsi Manet, falsi Courbet e falsi Corot [14]. Il critico Arsène A. proseguì il suo rendiconto per Le Figaro riferendo di aver visto i dipinti oggetto della controversia: egli scrisse che non vi fossero dubbi circa il fatto che potessero ritenersi delle croste se paragonati agli autentici dipinti di Monet, le ombre di queste marine risultavano nerastre anziché trasparenti e il disegno mancava di fermezza; mancava la deliziosa sottigliezza, il luccichio setoso tipico della mano del maestro; inoltre, poiché erano di fattura abbastanza fresca, furono accuratamente cotti, seguendo il noto trucco dei falsari per ottenere il grado di crettatura e invecchiamento desiderato. Eppure, fu innegabile come, con una bella cornice messa in risalto dalla luce favorevole di una galleria e avvallata dall’ approvazione di un curatore di museo, nessuno prima di allora dubitò di quei dipinti [15].
L’indizio principale che avrebbe dovuto mettere in allerta l’acquirente e che allertò in un secondo momento il mercante era dato dal basso prezzo dei manufatti.
L’espediente adottato esiste dalla notte dei tempi e non sarà mai abbastanza vetusto per non essere messo in atto ancora una volta nel futuro: si procede facendo credere al collezionista che il proprietario (o chi per lui) vuole sbarazzarsi (per i più svariati motivi) con discrezione dei beni per i quali può rinunciare a trattare con i mercanti e accordare una cifra incredibilmente vantaggiosa, evitando così verifiche ed accertamenti di esperti e periti. In altre circostanze viene fatto credere invece che l’artista ha eseguito un’opera qualitativamente più modesta per accontentare la richiesta di un intermediario con poca disponibilità economica, realizzando una cosiddetta opera secondaria, ma pur sempre meritevole di attenzione [16].
Ed ecco che quando l’acquirente è impaziente di acquistare a buon mercato, il risultato
talvolta è proprio quello di incappare in vere e proprie truffe (vedi anche Breve dissertazione sui
falsi: Vincent Van Gogh). Nel 1908 certamente sarebbe stato molto più semplice consultare lo stesso Monet (poiché ancora in vita), per avere conferma o meno dell’autenticità dei dipinti
antecedentemente al loro acquisto, evitando in questo modo lo spiacevole inconveniente. Il responsabile della questione che venne dibattuta in Tribunale, fu il Giudice di Istruzione M. Leydet,
che convocò Monet per testimoniare in più occasioni.
Lettera di Alice Hoschedé (moglie di Monet) alla figlia Germaine Salerou
Venezia, lunedì 2 novembre 1908
«(…) Con nostro grande stupore Monet ricevette una citazione dal sig. Leydet del Tribunale d'Istanza che lo invitava a comparire lì il 30 ottobre. Potremmo solo inviare un dispaccio, ma di cosa tratta questa convocazione? Alla fine, suppongo che finiremo per conoscere questo mistero [17]».
Nel 1908 il sessantottenne Monet compì il suo ultimo viaggio, recandosi a Venezia, si può dire che sino ad allora l’artista non conoscesse l’Italia. Egli aveva fatto in tutta la sua vita appena due soggiorni italiani, l’uno vicino all’altro: il primo con P. Auguste Renoir (1841-1919) per motivi di studio alla fine del 1883, il secondo per dipingere da gennaio all’aprile dell’anno successivo, nel 1884. Il viaggio del pittore a Venezia è circoscritto a un periodo ben definito, dal 30 settembre (giorno di partenza) con arrivo il 2 ottobre a Venezia, sino al 13 dicembre 1908 [18]. Il soggiorno veneziano gli impedì in quei mesi di poter comparire alla convocazione d’ufficio per la causa dei falsi Monet. È probabile, considerando il contenuto epistolare sopra-citato, che la moglie dell’artista Alice Hoschedé quando scrisse alla figlia, fosse ancora ignara dell’episodio accaduto mesi prima e delle successive conseguenze legali.
Lettera di Claude Monet al mercante d’arte Georges Durand-Ruel
Venezia, giovedì 5 novembre 1908
«Caro Signor Duran, io in effetti ho ricevuto una convocazione per presentarmi all’ufficio di M. Leydet, essa è indirizzata al recapito di Giverny quindi mi è arrivata troppo tardi. Io non potrò subito andarci e come dice l’invito non indica il motivo, io non so che pensare e mi sono affidato al telegrafo per comunicare l’impossibilità di recarmi a questa convocazione. Brevemente io non ho ancora fissato la data del nostro ritorno che dipenderà dal tempo, io penso comunque di rientrare per la fine del mese, di conseguenza in dicembre potrò incontrare M. Leydet [19]».
Lettera di Claude Monet al mercante d’arte Georges Durand-Ruel
Venezia, giovedì 12 novembre 1908
«Caro Signor Durand, mi ero preoccupato di avvertire M. Leydet che stando qui per un tempo non determinato io non potrò recarmi alla convocazione che mi è stata spedita a Giverny, ed ecco che mi arriva una nuova convocazione per il 13 corrente, ossia domani. Io non mi prendo la preoccupazione di telegrafarlo e dirgli che sarà impossibile, ma vi sarei grato di fargli sapere che io sarò ancora qui per qualche tempo, perché, se devo ricevere una convocazione ogni settimana, farei meglio a ritirare la mia denuncia e non parlare più di questo caso che mi interessa poco in fondo. Io l’ho fatto su vostra richiesta, ma vorrei non essere intasato al mio arrivo a Giverny [20]».
Lettera di Claude Monet al mercante d’arte Paul Durand-Ruel
Giverny, martedì 29 dicembre 1908
«(…) Quanto alla vicenda dei dipinti falsi, mi rammarico molto di aver sporto denuncia, perché sarà dapprima inutile e tutto ciò che è stampato sui giornali sembra sempre essere pubblicità che mi infastidisce molto e allo stesso tempo questo è di pessimo effetto, inoltre non ha prodotto altro risultato che fare la gioia di altre persone. Tutto questo, del resto, ve l'ho già detto il giorno del mio ritorno. Non ho ancora ritirato la mia denuncia e non farò nulla fino alla vostra visita [21]».
Lettera di Claude Monet al gallerista Gaston Bernheim-Jeune
Giverny, mercoledì 30 dicembre 1908
«(…) Ho ricevuto una lettera da M. Durand che mi chiedeva di venire in questi giorni. Ha, a quanto pare, per parlarmi di tante cose, dei dipinti falsi senza dubbio. Lo sto aspettando pertanto [22]»
Come si evince dalle stesse parole scritte dal pittore, la questione dei falsi dipinti lo stava notevolmente disturbando: la diatriba era finita su molti giornali locali turbando la sua quiete, il clamore mediatico in quella circostanza era considerato una cattiva pubblicità e Monet segnala al suo gallerista una sorta di pentimento nell’aver sollevato quel polverone legale. Dall’altro canto la causa permise di risalire all’acquirente, al venditore e a tutti i passaggi di proprietà, ma non al falsario, che avrà sicuramente preso tutte le precauzioni del caso. Nonostante lo stato d’animo di sfiducia e stanchezza espresso dall’artista, sul quotidiano francese Le Figaro vennero sottolineate le implicazioni positive della causa legale: in primis fare luce e chiarezza agli sventurati acquirenti della Germania, che a quel punto sarebbero diventati più consapevoli e attenti ai pericoli che potevano celarsi dietro alcune buone opportunità di acquisizione. Altresì il caso avrebbe dato modo di verificare molte altre collezioni; pertanto, tutto il mondo dell’arte avrebbe beneficiato di quella sventura: gli artisti, i commercianti e i collezionisti, che finalmente sarebbero stati più accorti nell’acquistare un’opera d’arte autentica con garanzie, certamente a cifre più costose, piuttosto che acquistare un falso, apparentemente economico, ma che in quanto falso non varrebbe nulla [23]. Alla fine della vicenda, forse, gli unici davvero scontenti di tutta la questione, per quanto celati nella loro oscura attività, saranno rimasti i falsari.
Molti anni più tardi, per la precisione undici, Monet riferì nuovamente al gallerista della famiglia Durand-Ruel di un ennesimo dipinto contraffatto, specificandone in questo caso titolo e soggetto Veduta di Etretat.
Lettera di Claude Monet al mercante d’arte Joseph Durand-Ruel
Giverny, mercoledì 27 marzo 1920
«Caro signor Joseph, vorrei poterti informare sul presunto dipinto falso (Veduta di Etretat). Ma per questo dovrei vedere la foto della tela. So che ne ho fatti parecchi di questo genere, alcuni in forma di schizzo, e può benissimo darsi che siano stati trovati incompleti e che siano stati completati, ma per questo mi impossibile pronunciare senza vedere almeno la foto. Tuttavia, posso quasi dire, contrariamente all'opinione della signora Butler [24], che si tratta di una tela di suo fratello (…)[25]».
Tra il 1883 e il 1886 l’artista fece diversi soggiorni ad Etretat, località sulla costa della Normandia. Il sito di Etretat era famoso per il suo spettacolare panorama di spiagge e scogliere, meta di tantissimi pittori di tutti i tempi, tra i tanti ci furono Pierre-Auguste Renoir (1841-1919), Camille Pissarro (1830-1903), Gustave Courbet (1819-1877), Eugène Delacroix (1798-1863), attratti dalla forza di quella natura. A gennaio 1883 Monet alloggiò all' Hôtel Blanquet, in una dependace da dove ebbe una splendida vista sulla scogliera e sulle barche, che gli permisero di dipingere senza uscire in caso di maltempo. In inverno Etretat era quasi deserta, priva del caos estivo dei vacanzieri e questo permetteva all’artista di poter lavorare con serenità a quei meravigliosi scenari, eccetto per il cattivo tempo, l’unico motivo di interruzioni. Ragion per cui in quell’occasione Monet non solo dipinse in loco, ma realizzò tantissimi studi con l'intento di avere del materiale da utilizzare per poter eseguire quei soggetti in un secondo tempo direttamente dal suo atelier [26]. La magnificenza della natura di quei luoghi lo mandò letteralmente in estasi: tra il 1883 e il 1885 si contano circa sessantacinque dipinti [27] aventi come soggetto le scogliere, le spiagge vuote e le barche arenate sulla spiaggia a causa della violenza del mare (Fig. 4). L’abbondanza pittorica con cui si era dedicato ad Etretat, oltre ad omaggiare un luogo con l’esecuzione di una serie tanto corposa, d’altra parte rese possibile ai falsari il poter introdurre nel mercato, con una certa agevolezza, opere aventi tali soggetto. La molteplicità esecutiva con cui spesso artisti di ogni epoca e stile si sono cimentati, talvolta anche compulsivamente, dedicando intere carriere artistiche o lunghi periodi della propria esistenza ad un medesimo soggetto, hanno reso la pratica della variante tipologica uno di quei tipici espedienti facilitatori adoperabili da imitatori con intenzioni fraudolente.
Passò qualche anno ancora, Monet era ormai un uomo anziano di ottantaquattro anni, appena due anni prima del suo decesso, scrisse di un ennesimo falso, un acquerello.
Lettera di Claude Monet a destinatario sconosciuto
Giverny, venerdì 5 settembre 1924
«...Come sospettavi, l'acquerello che mi è stato presentato non è mio. Non ho mai fatto acquerelli, quindi la firma fatta meglio della mia è un falso ed è una copia abbastanza abile di un mio dipinto appartenuto un tempo al cantante Faure...[28]»
Jean-Baptiste Faure (1830-1914) fu un baritono e collezionista d’arte francese. In occasione di un’esposizione organizzata nella galleria di Durand-Ruel nel 1876, la maggior parte delle diciotto opere esposte di Monet, secondo il catalogo dell’epoca, appartenevano al Signor Faure [29]; tale numero aumentò negli anni a seguire. Senza ulteriori indizi, appare difficile individuare oggi di quale dipinto (copiato) potesse trattarsi.
Con la sua eloquenza Monet mette un punto fermo della sua produzione artistica: non esistono opere realizzate ad acquerello dal pittore di Giverny, pertanto il falsario più accorto avrebbe saputo che quella non era la tecnica con cui cimentarsi per falsificare un Monet.
3. MONET E TOM KEATING
Nel 1990 nel programma televisivo inglese trasmesso dalla BBC Antiques Roadshow, in cui un team di esperti e periti d’arte si sposta per i paesi del Regno Unito per valutare manufatti artistici di varia tipologia portati dalla popolazione locale per avere una stima, apparve un’opera raffigurante Santa Maria della Salute e Canal Grande (olio su tela 91 x 71 cm) riconducibile per stile, composizione e soggetto iconografico, alla serie di dipinti aventi come soggetto Venezia realizzata da Monet nel 1908 durante i tre mesi di soggiorno nella città lagunare, ma in realtà rivelatosi un falso. Monet dall’esperienza veneziana produsse trentasette dipinti aventi come soggetto gli edifici principali della laguna e i suoi scenari: di questi ben sei afferenti il punto di vista del Canal Grande con Santa Maria della Salute sullo sfondo, di cui in maniera ancora più specifica tre aventi la vista di tre gradini sull’angolo sinistro, da cui il falso ritrovato trasse spunto nella versione senza gondoliere oggi conservata in collezione privata. La tela, benché assente di firma, fu riconducibile al restauratore nonché noto falsario britannico Tom Keating (1917-1984), che durante la sua attività di plagio, dichiarò di aver falsificato oltre duemila dipinti (senza mai indicarli) di più di cento artisti differenti. Nel 1977, dopo un processo per frode durato diversi anni, Keating fu arrestato (illustrerò le vicissitudini di questo mirabolante falsario in un prossimo contributo di questo Blog).
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Il 25 gennaio 2008 il falso Monet/vero Tom Keating ricomparve sul mercato, in vendita presso la J. P. Humbert Auctioneers Ltd [30] di Towcester in Inghilterra, presentato all’incanto nell’asta Fine Art & Antiques Sale al lotto n. 510 [31]. Secondo un articolo della BBC dello stesso anno, che ne annunciava la vendita, l’opera avrebbe potuto raggiungere la ragguardevole cifra di 15.000 sterline [32] (Fig. 5).
Complice la gloria postuma raggiunta dal falsario, nel tempo sono state numerose le vendite presso rinomate case d’asta di opere che imitavano i più svariati autori attribuite correttamente al loro contraffattore. Altri quattro dipinti ascrivibili alla falsificazione di opere di Claude Monet sono stati ceduti in vendite ufficiali.
- Il 10 ottobre 2009 presso la casa d’asta Willingham Auctions nel Regno Unito, con il lotto n. 741 fu proposto l’olio su tela Monet River scene (olio su tela 50 x 60 cm) [33].
- Il 5 settembre 2013 la casa d’asta Gorringes in Inghilterra, nell’asta Fine Art, Antiques & Collectables al lotto n. 1366, mise all’incanto il dipinto The Promenade, Argenteuil 1872 (olio su tela 50,8 x 61 cm) [34]. L’opera presenta la firma falsificata dell’impressionista francese e trattasi di una copia pedissequa dell’omonima tela di Monet (olio su tela 50.4 x 65.2 cm, 1872, National Gallery of Art di Washington) [35] di cui il pittore ne eseguì più versioni (Fig. 6).
- L’8 dicembre 2020 ancora da Gorringes, in Inghilterra, nell’asta Gorringes Winter Sale con il lotto n. 510, è stato venduto il dipinto La Charette, Route sous la neige à Honfleur (olio su tela 50,8 x 61 cm). A differenza della precedente opera, questa tela era stata firmata come Tom Keating apres Monet [36].
- Infine, il 26 febbraio 2020 presso Hannam's Auctioneers, anch’essa casa d’aste inglese, nella vendita denominata Fine Art & Antiques - Day 3 con il lotto n. 2690, è stata aggiudicata l’opera Four females in a field of flowers (olio su tela 40 x 55 cm). Anche in questo caso trattasi di falso assoluto, poiché il dipinto reca la firma spuria Claude Monet ‘73 [37] e si inscrive come fedele copia dell’originale di Monet Coquelicots (olio su tela 50 x 65, 3 cm, 1873, Musée d’Orsay di Parigi, Fig. 7).
Appare evidente dai confronti delle immagini proposte tra originali e falsi, benché le rilevabili discrepanze, che se non si ha mai avuto modo di poter osservare un autentico Monet dal vivo, l’inganno con un autentico falso è presto fatto. Nel 1983, Keating a seguito della fama di falsario raggiunta, scontata la sua pena e ormai redento, realizzò una serie di puntate televisive con cadenza settimanale per Channel Four TV Co. Ltd intitolata “On Painters”, della durata di circa venticinque minuti l’una, in cui mostrò la sua abilità tecnica e gli accorgimenti nel riprodurre Turner, Tiziano, Rembrandt, Degas e ovviamente, anche Monet. In particolare, nella puntata dedicata all’impressionista, Keating eseguì una versione dell’opera The Church At Vetheuil, che Monet dipinse in più occasioni tra il 1878-1881 realizzandone molte varianti in condizioni climatiche differenti. Pennellata dopo pennellata Keating, partendo da un disegno preparatorio, eseguì campiture piatte e ampie di colore estese per tutto il dipinto, definendo poi ogni oggetto della composizione con altrettante rapide sovrapposizioni di pigmento, adoperando i blu e le terre per le ombre- Benché la mimesi sia notevole, questa sola proprietà da sola non è sufficiente: la rapidità di esecuzione e le pennellate direzionali, la procedura adottata e la morfologia dei tocchi di pennello, differiscono molto dalla mano genuina del pittore di Giverny.
Certo è indubbio che il falsario abbia un suo talento, se non fosse per quell’ unico e non trascurabile particolare: NON è Monet!!!
Il Wallraf-Richartz-Museum & Fondation Corboud di Colonia ospita la collezione più completa di pittura Impressionista e Post-Impressionista della Germania, questa collezione unica è stata l’oggetto di studio per il progetto di ricerca Research Project Painting Techniques of Impressionism and Postimpressionism, intrapreso dal 2005 al 2008 [38]. Durante il progetto, attraverso l’ausilio delle più sofisticate tecnologie per l’analisi dei beni culturali, sono stati indagati circa 75 dipinti, con lo scopo di conoscere in maniera più puntuale le tecniche adottate dai pittori. Il corpus esaminato includeva sei dipinti del pittore francese Claude Monet, tra cui l’opera Bank of the Seine di Port-Villez (olio su tela 67 x 82,5 cm) che, con somma sorpresa si è rivelato essere un falso d’epoca [39] (Fig. 8). Il primo elemento messo in discussione per svelare la contraffazione è stato dato dall’anomalia con cui è stata apposta la firma: infatti questa, anziché presentare un tratto fluido, scorrevole e lineare, caratteristiche di un gesto spontaneo e genuino, era stata ripassata più volte, correggendone le forme, mettendo in rilievo l’incertezza esecutiva tipica di chi solitamente imita un’autografia che non gli appartiene.
Un altro fattore posto al vaglio dai ricercatori del dipartimento è stato il fatto che il dipinto fosse stato eseguito su un disegno preparatorio in antitesi con il modus operandi di Monet, che dipingeva direttamente sulla tela senza un abbozzo preliminare. Infine, l’indizio decisivo è stata la scoperta della presenza di una sostanza incolore adoperata per invecchiare la tela e conferire artificialmente l’età presunta di un autentico Monet [40]. Il falso dipinto imita l’opera pittorica dell’artista del 1885: comparve nel mercato la prima volta nel 1928 nella mostra Monet. Thannhauser di Berlino e risultava essere in collezione Thannhauser dal 1927 [41]. Monet era morto di recente (nel 1926) per cui è plausibile che la falsificazione fosse stata prodotta a ridosso della sua scomparsa, all’apice della sua fama o addirittura quando ancora in vita, come si è visto accadere sin dal 1908 [42]. Nel 1935 l’opera andò a New York nella collezione di Martin Nachmann; nel 1954 fu acquisito dal gallerista tedesco Wilhelm Grosshennig (1893-1983) dell’omonima galleria di Dûsseldorf, infine nello stesso anno il dipinto fu donato al museo Wallraf-Richartz di Colonia [43]. La scoperta del falso Monet all’interno dell’istituzione museale delinea ulteriormente la necessità, soprattutto nell’ambito dell’arte moderna, di rivisitare le proprie collezioni, affinché se ne verifichi con rigore l’effettiva autenticità alla luce delle nuove tecnologie e competenze, autenticità spesso avulsa dall’autorevolezza della presenza delle stesse in cataloghi ragionati, anch’essi passabili di errore.
Questo, infatti, è quanto avvenuto anche per l’opera del Wallraf-Richartz-Museum, catalogata e pertanto ritenuta genuina, dall’Istituto Wildenstein [44]. Monet realizzò più opere del medesimo panorama, ma osservato da punti di vista differenti, eccetto per un altro dipinto [45] di cui il falso risulta essere fedele copia nello stile e nella composizione, ma dall’esito cromatico e dal ductus morfologico delle pennellate assai differenti. Dalla storia di provenienza ed esposizione dell’esemplare genuino, si possono constatare dei passaggi documentali più solidi, nonché la presenza dell’opera nel mercato espositivo e collezionistico già dal 1889, ben trentanove anni prima della comparsa del secondo esemplare rivelatosi falso.
5. QUEL FALSO è VERO?
Come visto le azioni fraudolente a carico del noto pittore di Giverny sono state frequenti e si sono protratte per decenni a partire dalle prime decadi di popolarità artistica dell’artista, ma occorre precisare che ciò che qui viene raccontato rappresenta solo quanto è stato smascherato: il falso si rivela come tale nel momento che questo viene scoperto, ma chissà quante opere ancora, rimaste in ombra, potrebbero celare una contraffazione?
Nel 2011 il programma britannico della BBC Fake or Fortune si interessò all’opera Les Bords de la Seine à Argenteuil (olio su tela, 1875 (?), collezione privata) recante firma Claude Monet, presentando un corposo report con numerose prove a favore dell’autenticità all’attenzione del Wildenstein Institute, affinché l’opera potesse essere accolta nel corpus dell’artista e inserita in catalogo [46] (Fig. 9). Inaspettatamente e contrariamente all’esito delle ricerche effettuate dai conduttori ed esperti del programma, l’opera fu rigettata. Il proprietario del dipinto, lo storico dell’arte David Joel non si arrese e nel 2014 citò in giudizio l’istituzione, perdendo però la causa [47]. La corte di Parigi dichiarò la firma spuria ed avanzò l’ipotesi secondo cui il dipinto potesse essere stato realizzato da Louis Latouche (1829-1883) [48] pittore, commerciante di pigmenti, corniciaio e mercante d'arte, fornitore di materiali e sostenitore degli Impressionisti.
Secondo la cronistoria di provenienza emersa dall’indagine svolta durante il programma, il dipinto apparve per la prima volta sul mercato nel 1918: in quell’anno fu venduto dal mercante d’arte Georges Petit (1856-1920) al Palazzo Khalil al Cairo, dove rimase sino al 1953; una foto della tela fu pubblicata nel 1926 nel necrologio del pittore sul quotidiano Le Figaro [49].
Se il dipinto come dichiarato risultasse effettivamente realizzato nel 1875, intercorrerebbero ben quarantatré anni tra la sua presunta esecuzione e la vendita da parte del gallerista francese, un periodo piuttosto ampio per essere sufficiente a dimostrarne con assoluta certezza la sua genuinità; anche la compatibilità della tavolozza cromatica non rappresenta un elemento sufficiente di attendibilità, poiché i falsari d’epoca avevano accesso agli stessi pigmenti ed inclusi dell’artista da imitare.
A tal proposito l’unico modo per mettere un punto fermo alla disamina attributiva di quest’opera, sarebbe quello di colmare il gap temporale citato, alla ricerca di un documento, catalogo, lettera, fattura o qualsiasi altra prova cartacea, che dimostrasse l’immediata successione di passaggi tra l’artista e gli acquirenti adiacenti (avuti nell’arco dei citati quarantatré anni), con l’intento di eludere l’essersi imbattuti in un caso di frode simile a quelli proposti in questo contributo, aventi spesso una provenienza attendibile (vedi l’opera falsa del Wallraf-Richartz-Museum).
Il nome dell’artista suggerito dalla corte parigina, offrirebbe altresì una strada su cui incrociare l’eventuale ricerca per dimostrare che la congettura avanzata abbia un fondamento: la medesima indagine d’archivio negli anni intercorsi tra il 1875 (anno presunto di esecuzione) e il 1918 (anno di vendita) andrebbe fatta anche sui documenti del pittore Latouche, tenendo inoltre presente che nel 1926, quando è apparsa la foto dell’opera, questa presentava già la sottoscrizione con l’autografia di Claude Monet.
L’ aggiunta di una firma più celebre e pertanto più remunerativa, in dipinti dallo stile similare ma realizzati da pittori che non raggiunsero la medesima fama dei loro maestri, è stata prassi fraudolenta consolidata e assai diffusa nell’Ottocento e Novecento quando la mercificazione dell’arte si fece sempre più ingente e lo sviluppo del mercato non condannava le contraffazioni in tutte le sue forme, anzi, come scrisse Pierre Dalla Vigna, tutto era possibile laddove vi fossero autori disponibili a produrre finzioni e un pubblico disponibile a credervi e subirle [50].
Il problema dell’autenticità delle opere di Monet continua ad insinuarsi a doppia mandata a più livelli, in cui i confini tra ciò che è vero e ciò che è falso si fanno sempre più torbidi, aprendo dibattiti e controversie spesso di difficile risoluzione.
TAMARA FOLLESA
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NOTE
[1] Documento Originale Archives Durand-Ruel; Venturi L., Les Archives des Impressionisme, Volume I, Durand-Ruel I, 1939, p. 416; Wildenstein D., Catalogo Raisonné di Monet, Tomo IV (1899-1926. Dipinti) n. 1840, 1985 p. 374; Kendall R., Rosci M., Claude Monet: la vita e le opere attraverso i suoi scritti, Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1990, p. 198.
[2] Claude Monet, collana Art Gallery, De Agostini, Novara, 2017, pp. 1-2; pp.16-17.
[3] Colton C.C., Lacon, Many things in few words, addressed to those who think, New York, 1849, p. 127.
[4] Catalogo di vendita della collezione di Théodore Duret, tableaux et pastels, Paris, Galerie Georges Petit, 19 marzo 1894, p. 23, n°24.
[5] Arnau F., Arte della falsificazione, Falsificazione dell’arte, Feltrinelli, Milano, 1960, p. 27.
[6] Ivi, p. 357.
[7] Wildenstein D., Claude Monet: biographie et catalogue raisonné, Vol. 1- 5 Lausanne; Paris: La Bibliothèque Des Arts, 1974-1991.
[8] Kendall R., Rosci M., Claude Monet: la vita e le opere attraverso i suoi scritti, Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1990, p.6.
[9] La galleria Bernheim-Jeune è stata una delle più antiche gallerie d'arte di Parigi, fondata nel 1863, ha cessato la sua attività nel 2019. Promosse, tra gli altri, con grande successo, gli artisti Impressionisti.
[10] Del gruppo di undici lettere afferenti i falsi Monet, nel presente contributo ho citato solo quelle ritenute più rilevanti.
[11] Arsène A., Les faux Monets, in «Le Figaro: journal non politique» del 18 luglio 1908, n. 200, p. 3.
[12] Ibidem.
[13] Documento Originale Archives Durand-Ruel; Wildenstein D., Catalogo Raisonné di Monet, Tomo IV (1899-1926. Dipinti) n. 1840, 1985 p. 374; Kendall R., Rosci M., Claude Monet: la vita e le opere attraverso i suoi scritti, Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1990, p. 198.
[14] Arsène A., Les faux Monets, in «Le Figaro: journal non politique» del 18 luglio 1908, n. 200, p. 3.
[16] Ibidem.
[17] Piguet P., Scheneider P., Monet et Venice, Hersher, Paris, 1986, p. 50.
[18] Ivi, pp. 23-24.
[19] Documento Originale Archives Durand-Ruel; Venturi L., Les Archives des Impressionisme, Volume I, Durand-Ruel I, 1939, pp. 482-429 l. 340; Wildenstein D., Catalogo Raisonné di Monet, Tomo IV (1899-1926. Dipinti) n. 1865, 1985 p. 374; Piguet P., Scheneider P., Monet et Venice, Hersher, Paris, 1986, p. 54.
[20] Documento Originale Archives Durand-Ruel; Wildenstein D., Catalogo Raisonné di Monet, Tomo IV (1899-1926. Dipinti) n. 1866, 1985 p. 374; Piguet P., Scheneider P., Monet et Venice, Hersher, Paris, 1986, p. 57.
[21] Documento originale Archives Bernheim-Jeune, Paris; Wildenstein D., Catalogo Raisonné di Monet, Tomo IV (1899-1926. Dipinti) n. 1872a, 1985 p. 375.
[22] Ibidem.
[23] Arsène A., Les faux Monets, in «Le Figaro: journal non politique» del 18 luglio 1908, n. 200, p. 3.
[24] Monet ritenne che il dipinto potesse non essere un falso vero e proprio, ma trattarsi di una tela erroneamente a lui attribuita e in realtà da ritenersi del pittore impressionista americano Theodore Earl Butler (1861–1936), che trasferitosi a Parigi per studiare arte, divenne amico proprio del caposcuola impressionista, sposando la sua figliastra Suzanne Hoschedé (figlia della seconda moglie del pittore Alice Hoschedé ).
[25] Documento Originale Archives Durand-Ruel; Venturi L., Les Archives des Impressionisme, Volume I, Durand-Ruel I, 1939, p. 456; Wildenstein D., Catalogo Raisonné di Monet, Tomo IV (1899-1926. Dipinti) n. 2341, 1985 p. 404.
[26] Wildenstein D., Catalogo Raisonné di Monet, Tomo II (1882-1886. Dipinti), Bibliothèque des Arts, Lausanne-Paris, 1979, pp. 10-12.
[27] Il conteggio di tali opere è stato effettuato dalla scrivente prendendo quale riferimento il catalogo ragionato del pittore Wildenstein D., Catalogo Raisonné di Monet, Tomo II (1882-1886. Dipinti), Bibliothèque des Arts, Lausanne-Paris, 1979, pp. 100-185.
[28] Lettres autographes et doc. hist., Charavay, Paris, bull. n° 699, fév. 1958, n° 26849; Wildenstein D., Catalogo Raisonné di Monet, Tomo IV (1899-1926. Dipinti) n. 2574, 1985 p. 419.
[29] Wildenstein D., Catalogo Raisonné di Monet, Tomo I (1840-1881 Dipinti), Bibliothèque des Arts, Lausanne-Paris, 1974, p.79.
[30] Nel 2017 la casa d’asta ha modificato il suo nome in Humbert & Ellis (Auctioneers & Valuers) Ltd.
[31] L'ultima consultazione da parte della sottoscritta della fonte per tali informazioni risale al 2018, sul portale per il mercato dell’arte INVALUABLE (https://www.invaluable.com/ ) e attualmente non più disponibile online.
[32] Fake Monet' put under the hammer in «BBC NEWS» del 24 Gennaio 2008 in http://news.bbc.co.uk/ (ultima consultazione il 24 ottobre 2022).
[33] INVALUABLE, il portale per il mercato dell’arte in https://www.invaluable.com/ (ultima consultazione il 24 ottobre 2022).
[34] Ibidem.
[35] Collection online in https://www.nga.gov/collection.html (ultima consultazione il 24 ottobre 2022).
[36] Ibidem.
[37] Ibidem.
[38] Research project Painting Techniques of Impressionism and Postimpressionism, Wallraf-Richartz-Museum & Fondation Corboud in Cologne, in https://forschungsprojekt-impressionismus.de/ (ultima consultazione il 26 ottobre 2022).
[39] Wallraf-Richartz-Museum & Fondation Corboud, From the Museum’s Laboratory in https://www.wallraf.museum/ (ultima consultazione il 26 ottobre 2022).
[40] Museum discovers prized Monet is a fake in «ABC NEWS» del 14 febbraio 2008, in https://www.abc.net.au/news/ (ultima consultazione il 26 ottobre 2022); Cauderlier A., L’usage d’un faux in «Giverny News, Le Blog d'Ariane» del 12 marzo 2008, in http://givernews.com/ (ultima consultazione 26 ottobre 2022).
[41] Wildenstein D., Catalogo Raisonné di Monet, Tomo II (1882-1886. Dipinti), Bibliothèque des Arts, Lausanne-Paris, 1979, p. 166; Wildenstein D., Monet, Catalogue raisonné, vol. III, Taschen, Cologne, 1996, p. 378.
[42] Il 1908 rappresenta la prima data documentata di una presenza di falsificazioni di opere di Claude Monet, ma non si esclude che l’artista possa essere stato contraffatto già molti anni addietro.
[43] Wildenstein D., Catalogo Raisonné di Monet, Tomo II (1882-1886. Dipinti), Bibliothèque des Arts, Lausanne-Paris, 1979, p. 166; Wildenstein D., Monet, Catalogue raisonné, vol. III, Taschen, Cologne, 1996, p. 378.
[45] Ibidem, n. di catalogo W. 1004 (Bords de la Seine à Port-Villez); oggi in collezione privata, è stato venduto da Sotheby’s New York, nell’ambito dell’asta Impressionist And Modern Art Evening Sale dell’8 maggio 2007, con il lotto n. 3 e una stima di 2.500.000/3.500.000 di dollari, in https://www.sothebys.com/en/auctions/ecatalogue/2007/impressionist-and-modern-art-evening-sale-n08314/lot.3.html (ultima consultazione 26 ottobre 2022).
[46] BBC UK: Fake or Fortune, Serie 1, Ep. 1 Monet del 19 giugno 2011.
[47] Grosvenor B., Fake or Fortune? Monet owner loses Paris court case in «ART HISTORY NEWS. Research. Exhibitions. Auctions. Discoveries. Opinions» del 7 maggio 2014, in https://www.arthistorynews.com/ (ultima consultazione il 26 ottobre 2022).
[48] Noce V., Un (faux) Claude Monet moins monnayable in «Liberation» del 6 maggio 2014, in https://www.liberation.fr/ (ultima consultazione il 26 ottobre 2022).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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- Catalogo di vendita della collezione di Théodore Duret, tableaux et pastels, Paris, Galerie Georges Petit, 19 marzo 1894;
- Claude Monet, collana Art Gallery, De Agostini, Novara, 2017;
- Chavange R., Obituary of Monet in «Le Figaro Artistique» del 16 dicembre 1926.
- Colton C.C., Lacon, Many things in few words, addressed to those who think, New York, 1849;
- Della Vigna P., L’opera d’arte nell’età della falsificazione, Mimesis, Milano, 1987;
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- Geffreoy G., Monet, sa vie et son oeuvre, Editions Crès et Cie, Paris, 1922-1924;
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- Piguet P., Scheneider P., Monet et Venice, Hersher, Paris,1986;
- Rossi Bartolatto L. (a cura di), L'opera completa di Claude Monet: 1870-1889, Rizzoli Classici dell’Arte, Milano, 1978;
- Venturi L., Les Archives des Impressionisme, lettres de Renoir, Monet,Pissarro, Sisley et autres. Memoires de Paul Durand Ruel. Documents, Volume I, Durand-Ruel Editeurs, Paris-New York, 1939;
- Wildenstein D., Claude Monet: biographie et catalogue raisonné, Vol. 1- 5, La Bibliothèque Des Arts, Lausanne-Paris,1974-1991;
- Wildenstein D., Monet, Catalogue raisonné, Vol. 1-4, Taschen, Cologne, 1996.
ARCHIVI
- Archives Durand-Ruel;
- Gallica Bibliothèque Nationale de France;
- Invaluable;
- Musée d’Orsay di Parigi, Collection online;
- National Gallery of Art di Washington, Collection online;
- Research project Painting Techniques of Impressionism and Post-impressionism;
- Sotheby’s Casa d’Aste;
- Wallraf-Richartz-Museum & Fondation Corboud;
- Wildstein Pattern Institute.